Quando è difficile dire addio al proprio terapeuta

Quando è difficile dire addio al proprio terapeuta

Lo psicologo può creare dipendenza?

Foto di cvpericias da Pixabay

È necessario innanzitutto distinguere tra psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista.

Lo psicologo ha competenze di diagnosi e sostegno, non di cura.

Lo psicoterapeuta si dedica alla terapia, alla cura, di sintomi singoli o specifici che mettono in sofferenza la persona.

Lo psicoterapeuta psicoanalista porta avanti la cura a livello profondo, fino a ritrovare l’origine del sintomo e a comprenderne la funzione nella vita della persona.

Il processo psicoanalitico si basa sul concetto di transfert, scoperto da Freud come processo spontaneo tra analista e paziente; esso si presenta come una riedizione, portata all’interno della relazione attuale con la persona del terapeuta, di esperienze psichiche che il paziente ha avuto con persone significative del passato. Il transfert può essere positivo o negativo, possono cioè essere indirizzati al terapeuta sentimenti positivi o negativi.

Lacan chiarisce ulteriormente la natura del transfert suggerendo che non si può parlare di transfert senza parlare di amore e di desiderio dell’altro. Rifacendosi all’Hegel letto da Kojève, egli trae la tesi che l’essere umano desidera il desiderio dell’altro. L’espressione “il desiderio dell’altro” ha un doppio significato: da un lato istituisce l’altro come oggetto del mio desiderio, dall’altro rende me l’oggetto del desiderio dell’altro.

Nella teoria lacaniana del transfert la dimensione dell’amore si annoda naturalmente anche a quella del sapere; l’analista è investito eroticamente nel transfert analitico in quanto egli è ritenuto possedere il sapere sull’inconscio, ciò che c’è di più intimo per il soggetto. Sull’analista viene dunque trasferito l’amore per l’esistenza di un sapere di cui egli disporrebbe, ma che il soggetto non sa. L’analista ha sempre presente che questo amore che il paziente gli indirizza non riguarda lui come persona, ma il sapere riguardo all’intimità del paziente che egli è supposto possedere.

L’analista saprà allora indirizzare questa domanda di sapere verso la verità dell’inconscio del paziente, la verità del suo desiderio, della sua sofferenza sintomatica, il suo Perché sto male? Cosa vuol dire questo mio stare male?

Questo è il primo passo per spezzare una potenziale dipendenza del paziente dall’analista, metterlo nella condizione di essere lui in prima persona ad interrogare ed indagare il suo sintomo, metterlo al lavoro.

È anche possibile che il soggetto arrivi dall’analista senza la consapevolezza di avere un sintomo, poi il fatto di rivolgersi ad uno psicoanalista, di cominciare a parlare, può far sì che egli colga di avere un comportamento, una sofferenza, sul cui significato iniziare ad interrogarsi.

Per Freud esistono tre mestieri impossibili: governare, educare e curare, che corrispondono anche a tre possibili cedimenti dalla posizione dell’analista.

Se l’analista pensa di poter governare non la cura ma la vita del paziente scivola verso la posizione, il discorso, del padrone, di cui tratta Lacan nel Seminario XVII.

Se l’analista pensa di poter educare rischia di scivolare verso la posizione del maestro, e va ricordato che «l’educazione più aberrante non ha mai avuto altro motivo che il bene del soggetto»[1].

Se l’analista pensa di poter curare scivola verso la posizione del medico: colui che è depositario del sapere, del discorso della scienza, dal quale si rischia il ricorso alla quantificazione, alla riduzione del fenomeno a cifra, protocollo, misurazione e valutazione, come vediamo nel sempre maggior ricorso a diagnosi di DSA, BES, ADHD, ecc…

Il desiderio dell’analista è sempre rivolto al volerne sapere dell’inconscio e del desiderio dell’altro che si configura come un enigma. Il non rispondere da parte dell’analista alla domanda d’amore, di accudimento, di sostegno del paziente, mantiene aperta ed operativa la possibilità per il paziente di rimanere non dipendente dall’analista e di interrogarsi sulla sua verità inconscia. In definitiva, il dispositivo analitico non è altro che un modo di riattivare l’inconscio.

«La dinamica della cura dipende dal desiderio che spinge verso un nuovo sapere da scoprire. L’analisi non si fa senza l’analista. Il transfert è articolato con il desiderio dell’analista»[2].

Rispetto al momento di conclusione di un’analisi Freud nel suo testo Analisi terminabile e interminabile ci dà delle precise indicazioni:

Occorre innanzitutto mettere l’accento su ciò che intendiamo con l’espressione polivalente di “fine di un’analisi”. […] La prima è che il paziente non soffra più dei suoi sintomi e delle sue angosce, nonché delle sue inibizioni; la seconda è che l’analisi giudichi che il malato è stato reso tanto cosciente relativamente al materiale rimosso, che sono state debellate tante resistenze, che non c’è da temere il rinnovarsi dei processi patologici in questione. […] L’altro significato dell’espressione “fine di un’analisi” è di gran lunga più ambizioso. In nome di esso ciò che ci domandiamo è se l’azione esercitata sul paziente è stata portata tanto avanti che da una continuazione dell’analisi non ci si possa ripromettere alcun ulteriore cambiamento. […] L’analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell’Io; fatto questo, il suo compito può dirsi assolto[3].

Alla fine dell’analisi il soggetto avrà imparato ad avere a che fare in modo più efficace con il suo sintomo (per quanto ne rimarrà sempre una coda, una parte che non potrà essere completamente eliminata) ed a quel punto l’analista potrà essere lasciato cadere, evacuato. In alcuni casi il paziente può non riuscire a fare questo distacco spontaneamente e starà all’analista, attraverso i sogni, i lapsus le dimenticanze e le altre forme dell’inconscio portate in seduta, ascoltare il “non detto” del paziente ed accompagnarlo nella decisione di terminare la terapia. Un terapeuta che conduca la cura in modo etico e competente potrà segnalare al paziente quando è il momento di concludere il percorso.

Alice Pari, Psicoterapeuta, Psicoanalista

Oriana Ermeti, Psicoterapeuta, Psicoanalista


[1] J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere (1958), in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 615.

[2] G. Briole, Cambiare analista, in: J.-A. Miller, Chi sono i vostri psicoanalisti?, Astrolabio, Roma, 2003, p. 144.

[3] S. Freud, Opere complete, Opere 11, Analisi terminabile e interminabile, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2013, Formato Kindle.

Ringrazio Ohga per la pubblicazione di questa intervista in:

https://www.ohga.it/gli-effetti-collaterali-della-psicoterapia-quando-e-difficile-dire-addio-al-proprio-analista/

Femminicidio: l’impossibilità di riconoscere un partner degno

Femminicidio: l’impossibilità di riconoscere un partner degno
femminicidio

Il femminicidio è la manifestazione ultima e suprema di violenza di genere contro le donne, conseguenza spesso di una sistematica ed estesa violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e privato.

L’orientamento psicoanalitico legge questo fenomeno a partire non dalla dimensione sociale ma dall’inconscio, introducendo una dimensione etica che prende in considerazione la singolarità, il caso per caso, tentando di andare oltre la logica universale vittima-carnefice e di indagare la complessità e la criticità del rapporto tra i sessi e della relazione con l’Altro.

Freud aveva individuato nel rifiuto della femminilità il maggiore ostacolo alla relazione tra uomini e donne ed ha anche sottolineato come la pulsione di vita e la pulsione di morte siano strettamente ed inscindibilmente connesse facendo sì che ogni relazione amorosa sia intessuta anche di sentimenti d’odio.

Jacques-Alain Miller afferma che l’uomo e la donna sono due razze non dal punto di vista biologico ma per quanto riguarda il godimento[1]; ciò che si odia è dunque il godimento dell’Altro.

Tra uomini e donne c’è una differenza costitutiva fondamentale, sono due pianeti diversi dice John Gray[2], differenza che spesso risulta impossibile da sopportare.

Freud definisce la donna “un continente nero”, un enigma per l’uomo, ma anche per la donna stessa e lascia aperto ai successori un interrogativo al quale non riesce a rispondere: Che cosa vuole una donna?

Rinveniamo numerosi fatti di cronaca che riportano storie di stalking, aggressioni, stupri o uccisioni di donne, ma non si deve dimenticare che ciò che emerge dai media è solo parte di una realtà radicata e diffusa fatta di maltrattamenti, persecuzioni, umiliazioni e violenze contro le donne perpetrate quotidianamente nel silenzio, spesso assenso, generale.

Si rende urgente «una politica di prevenzione della violenza di genere fondata sulla consapevolezza che le sue radici stanno in una violazione morale e simbolica della donna e della sua dignità»[3]. Nonostante un lavoro decennale per la rivendicazione e la progressiva, lenta, integrazione dei diritti di pari opportunità, viviamo tuttora in un tessuto sociale e culturale che discrimina e colpisce la donna in ogni settore. È ancora preponderante nei media l’uso e l’abuso del corpo femminile ridotto ad oggetto e degradato, privato del suo pudore e del suo valore simbolico con l’effetto di sostenere ed alimentare una cultura machista e sessista.

È ancora tristemente attuale il monito di Simone de Beauvoir «Non dimenticare mai che una crisi politica, economica o religiosa sarà sufficiente per mettere in discussione i diritti delle donne. Questi diritti non saranno mai acquisiti. Dovrai rimanere vigile per tutta la vita». La crisi politica ed economica che stiamo vivendo contribuisce a fomentare un clima di incertezza e paura che favorisce una regressione civile e sociale caratterizzata dal riemergere delle ataviche pulsioni contro il genere femminile. Fin da sempre nei tempi di crisi (guerre, carestie, rivoluzioni, eccetera) le donne vengono investite e sovraccaricate non solo di richieste e pretese ma anche di funzione di capro espiatorio su cui scaricare aggressività e frustrazioni.

La violenza, l’odio, il disprezzo si palesano ogni volta che la donna non si fa trovare là dove un uomo la posiziona. Si assiste a un paradosso: più l’emancipazione della donna avanza, e più l’uomo perde la sua identità e la perseguita “o mia o di nessun altro”. Ma questo non vuol dire che non ci possa essere un incontro felice tra un uomo e una donna, fondato sulla parola d’amore.

La violenza sulle donne potrà essere debellata solo operando sugli stereotipi sociali e culturali su cui si fonda, svolgendo un lavoro di sensibilizzazione e formazione che faccia nascere, col tempo, un mutamento culturale profondo e radicale. Il nucleo di questo cambiamento sarà il favorire una politica di riconoscimento ed accoglienza delle differenze, prima di tutte quella di genere.

Nelle formule della sessuazione Lacan distingue le modalità di godimento maschile da quello femminile. «Mentre il primo è concentrato sull’avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di prestazione, sul possesso dell’oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale (godimento fallico); quello femminile appare senza misura, irriducibile all’organo, molteplice, invisibile, non contabilizzabile, infinito (godimento al di là del fallo)»[4]. Nel rapporto tra un uomo ed una donna, a causa della diversità del loro godimento, non può esserci né completezza, né simmetria, né reciprocità.

Uccidere l’altro è segno dell’odio che ciascuno di noi ha per l’Altro, per il diverso, per la differenza irriducibile. Gli uomini spesso non riescono a sopportare l’alterità del desiderio delle donne, il loro modo di desiderare altrove (le amiche, la carriera, i figli) che viene visto come un tradimento alla promessa d’amore.

Il legame d’amore, così come il legame sociale, ha un’origine immaginaria e consiste in un processo di identificazione tramite il quale un individuo trova nell’altro degli aspetti che gli sono simili, o dissimili. Questo aspetto immaginario del legame è anche l’asse dove si colloca il binomio amore/odio. La psicoanalisi ha mostrato come, per entrare nel legame d’amore, sia però anche necessaria l’accettazione di una rinuncia, di una perdita costitutiva, della consapevolezza che tale legame non potrà mai essere totalmente soddisfacente ed esauriente. L’individuo dovrà essere disposto a perdere qualcosa, ad accettare di non potersi soddisfare totalmente lì, ma soprattutto ad accettare che tale legame sarà sottoposto ad una Legge simbolica che sarà al di sopra di entrambe le parti. L’impossibilità ad accettare questa perdita rende il legame fragile e fa emergere l’asse immaginario, dunque il binomio amore/odio.

Allora quando un uomo uccide una donna, chi uccide? Nella società del capitalismo che dà l’imperativo di godere attraverso il consumo massiccio dell’oggetto il discorso femminile è quello della singolarità, di un godimento che è al di fuori del fallo, della sopraffazione e del primeggiare sull’altro; il godimento femminile è qualcosa che non può essere padroneggiato, domato, previsto, è totalmente enigmatico persino alla donna stessa.

Il godimento femminile è altro rispetto a quello maschile. Lacan utilizza un gioco di parole trasformando il francese normal, normale, in norme-mâle, norma maschile ponendo l’accento sul tratto maschile della norma, la regolazione, il tutto, l’universale, in opposizione all’enigma, il non tutto e il singolare del femminile che dunque, essendo peculiare di ogni singola donna, non ha una norma.

Il mistero del godimento femminile è indecifrabile, non esaurito dal significante fallico ma sempre con la necessità di un altrove, e l’essere umano ha timore e fastidio di tutto ciò che non può comprendere, misurare, controllare. Si fa allora una distinzione netta tra godimento femminile, della donna, e godimento materno, della madre, assegnando a quest’ultima un’aura di dolcezza, santità quasi, nonostante la clinica mostri quotidianamente la devastazione che tale godimento è capace di portare sui figli quando non è mitigato da un desiderio verso un uomo, una professione, una cerchia sociale, un altrove insomma.

Il godimento femminile turba e spaventa fino a risultare insopportabile, odioso addirittura, esattamente come accade con i modi di vivere, le usanze, gli odori e i sapori dello straniero, del migrante, dell’extracomunitario, portatori di una peculiare diversità.

La psicoanalisi ha messo in evidenza come il primo e più importante straniero sia per ciascuno il proprio inconscio, un’intima estraneità a se stessi che riguarda ciascuno.

Ma il godimento femminile risulta inafferrabile ed indecifrabile alla donna stessa che rimane smarrita davanti al proprio enigma e va alla ricerca di conferme riguardo alla propria desiderabilità, ed addirittura esistenza, da parte del partner, a volte anche a caro prezzo, quando la conferma passa per la violenza. L’ideale dell’amore diventa dunque ciò che può dare consistenza al vuoto di identità di una donna, rispondendo alla sua necessità di sentirsi degna di essere amata e di esistere; l’innamoramento può rendere una donna cieca alla possibilità di riconoscere un partner che possa essere degno, disposto a farsi non complice ma compagno, disposto alla condivisione e non all’affermazione delle proprie ragioni.

Un uomo interessato a comprendere l’enigma del godimento femminile, e da esso affascinato, è un uomo veramente interessato alla sua donna e può rivelarsi un partner degno. L’amare una persona non dà alcun diritto su di lei, non perché ti amo tu devi fare ciò che ti dico. Nessuno possiede una verità, una definizione precisa, su cosa sia l’amore; certo non è un diritto, né un dovere, ma probabilmente ha qualcosa a che fare col fare un lavoro di pensiero, una faticosa e impegnativa costruzione di un patto, una collaborazione, che mira al conseguimento di un guadagno, un benessere, reciproco e comune.


[1] J.-A. Miller, Extimitè. Corso tenuto all’Università Parigi VIII 1985-1986 (inedito), lezione del 27/11/1985

[2] J. Gray, Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere, Rizzoli, Milano, 1992

[3] FEMMINICIDIO. IL FEMMINILE IMPOSSIBILE DA SOPPORTARE Interventi del 17 Maggio 2013 Casa Internazionale delle Donne – Roma, p.30 : https://www.istitutofreudiano.it/sites/default/files/femminicidio.pdf

[4] Idem, p. 60

Dr.ssa Alice Pari, Psicoterapeuta, Psicoanalista

Vedi anche:
http://www.alicepari.it/femminicidio/

Educazione in adolescenza

Educazione in adolescenza
Educazione in adolescenza

Libertà e responsabilità genitoriale nell’adolescenza

L’adolescenza è il momento in cui l’individuo viene chiamato ad assumersi la sua responsabilità sessuale e sociale. Nell’infanzia il bambino era totalmente affidato alla responsabilità del genitore; dopo questo passaggio il ragazzo, e l’adulto poi, dovrà farsi carico di responsabilità proprie, potrà forse cercare di sfuggirle, ma non potrà più certamente dichiararsene estraneo. Il ragazzo conosce quali sono i compiti degli adulti, avendo avuto modo di osservandoli fin dalla nascita, e con l’adolescenza viene pian piano chiamato a farsene carico, ad assumerseli in prima persona rispondendo circa la loro corretta esecuzione. L’adolescente inizia con timore questo cammino verso la vita adulta, cercando un modello di riferimento, di identificazione tra coloro che questo percorso l’hanno già portato a termine.

Un tempo egli incontrava la presenza massiccia e consistente di una comunità che con le sue regole, anche rigide, offriva punti di riferimento sicuri, o riti di passaggio che orientavano in qualche modo il percorso. Nella società moderna queste regole fisse e salde si sono attenuate, fino quasi a scomparire. Esiste una difficoltà a vedere, a stabilire un limite, una fine di questo periodo adolescenziale, dovuta in massima parte alla difficoltà ad accettare un taglio, una mancanza, una rinuncia; ad esempio i ragazzi non vengono più incoraggiati ad uscire di casa o spesso non lo fanno per non rinunciare alla comodità o all’agiatezza che il continuare a vivere in famiglia può garantire loro, a fronte dei sacrifici e delle privazioni che dovrebbero patire nell’avviarsi faticosamente verso l’autonomia, e così vediamo adolescenze prolungarsi anche oltre i 30 anni. In questi casi l’adolescenza perde il suo carattere di età di passaggio per diventare quasi una identità definitiva, benchè immatura (come nella sindrome di Peter Pan).

Questo rifiuto di accettare il taglio, la mancanza, il limite, porta all’incapacità di percepire la fine di qualcosa come l’inizio di un’altra, di poter compiere il passaggio generazionale, ostacolato a volte anche dalla difficoltà degli adulti di accettare il proprio limite, la propria fine, e di lasciare lo spazio ai successori delle nuove generazioni.

L’adolescenza è il tempo in cui il ragazzo è chiamato ad elaborare il lutto per la propria infanzia, ma anche per i genitori devono elaborare la perdita del loro “bambino” e contemporaneamente accettare che si avvicina il tempo di cedere le redini, di lasciare che si compia il passaggio generazionale. I tempi moderni, con il mito dell’eterna giovinezza e con le adolescenze prolungate oltre ogni limite, certamente non aiutano questo processo. Dice Giovanna Di Giovanni: “Da questa fuga degli adulti dallo scorrere della vita e quindi dall’accettazione della sua fine, della morte, ci sembra che l’adolescente sia bloccato più che da qualsiasi abdicazione di ruolo educativo. O più precisamente, nessuna assunzione di responsabilità può essere realmente possibile da parte degli adulti se non è accettato un ruolo e un tempo definiti per attuarla, se non è ammesso che ogni guida è lì per essere sorpassata e che il ragazzo presentifica il passaggio inevitabile”[1].

Se da una parte si muove una critica al ragazzo che cerca di allontanare l’assunzione delle proprie responsabilità, dall’altra però anche gli adulti in qualche modo respingono le proprie. I genitori trincerandosi dietro una pretesa di modernità e alla difficoltà a frustrare i propri figli, gli insegnanti, a volte, dietro ad un ruolo tecnico e conoscitivo che non possono trascurare. Si moltiplicano allora le diagnosi di disturbi o devianze (DSA, BES, ecc…), così come la pubblicazione di manuali per i genitori moderni, quasi che una etichetta di patologia o il ricorso ad un sapere universale ed anonimo potesse sostituire l’implicazione individuale nella cura di quel particolare bambino o ragazzo. Infatti, se è vero, come dice Freud in Psicologia delle masse ed analisi dell’Io, che l’individuo è sociale fin dall’inizio della sua vita, è altrettanto vero che una società veramente umana prende in considerazioni gli individui nella propria singolarità e che l’individuo solo svincolato dalla massa e dalle sue pressioni può recuperare la responsabilità delle proprie azioni e del proprio pensiero.

L’adolescenza è quel processo attraverso il quale il soggetto esce dalla scena familiare ed entra in quella sociale. Staccandosi da quel canovaccio che è sempre stato scritto da altri per lui, l’adolescente ha il compito di trovare un’altra scena, quella sociale appunto, in cui riuscire a dire quello che vuole, con le sue parole, cercando e trovando il suo desiderio, avendo la possibilità di esprimere le sue pulsioni libidiche al di fuori della famiglia.

“Diventare adulti vuol dire assumere responsabilità nuove, inventare nuovi modi di vivere”[2].

“Se sullo scenario sociale questo significa spodestare la generazione precedente, su quello familiare significa spodestare il padre, la madre, per assumere il ruolo di donna e di uomo”[3].

Con questo processo l’adolescente arriva ad assumere una responsabilità simile a quella del padre, fonda un ordine, una Legge sua, che prende lo spunto da quello in cui è cresciuto ma che viene rielaborata secondo la propria singolarità. Il cambiamento è qui necessariamente il frutto di un conflitto, di un “essere contro” che ha la funzione di confrontarsi con la famiglia e la società. La devianza è un processo necessario; l’adolescente deve deviare dal percorso che i genitori gli hanno costruito ancor prima che nascesse, dal suo essere parlato ancor prima che nascesse. Tutte le identificazioni devono cadere, tutto ciò che si è detto di lui deve lasciar posto ad un dire di sé, ad uno scegliere cosa tenere e cosa buttare, ad un ricostruirsi su basi autonome.

Uscire dal posto che gli hanno assegnato i genitori non vuol dire necessariamente rinnegarlo, significa costruirsi un proprio stile, un proprio modo di vivere nella società umana, un proprio stile di godimento.

Piero Feliciotti, in Vite di confine, sottolinea che una famiglia sana non è quella in cui non ci sono conflitti e ribellioni, ma quella capace di trasformare la forza del conflitto e del dissenso in fattori di cambiamento, e non di devianza psicopatologica. È indispensabile che l’adolescente possa ribellarsi alla dipendenza dei genitori senza avere paura di poterli distruggere davvero, ma avendo un’intima certezza che essi saranno sempre lì, come nel tiro alla fune, a tenere l’altro capo della corda. La responsabilità principale dei genitori è propria questa, tenere saldamente l’altro capo della corda, tenere una posizione di fiducia in sé, nel figlio e nella relazione reciproca.

La ribellione nell’adolescenza ha un doppio significato: da un lato è una fuga dall’Altro, ma rappresenta anche un fortissimo appello all’Altro, anche sotto forma di provocazione. Si fugge dunque dal primo oggetto d’amore, ma si continua a fare appello alla sua funzione simbolica alla quale non si può rinunciare poiché è impossibile non avere un posto nell’ordine, nella successione, delle generazioni.

Le provocazioni sono uno “sperimentare se l’Altro tiene, se fa da sponda, se tutto il sistema di valori e di parole è qualcosa che l’adulto sostiene con la testimonianza della sua vita o se è buttato lì tanto per fare una predica “come se” l’adulto ci credesse. L’adolescenza è terribilmente esigente sull’etica, anche se è tollerante sulla morale”[4].

La legge paterna è un principio etico, è un principio di autorità in virtù del quale c’è un padre che si autorizza a fare delle scelte, a dare un senso alle cose o alle parole. È incarnato dal padre ma deve essere sostenuto e riconosciuto anche dalla madre. “Il padre è quello che alla fine di tuti i discorsi o di tutte le possibili spiegazioni, alla fine di tutti i perché, si permette di dire una cosa assurda: è così perché è così, è così perché lo dico io. Con questo si assume l’onere della prova, cioè dimostra come e cosa si deve fare, anche se e proprio perché non esiste la spiegazione scientifica. Però il padre fa “come se” sapesse qual è la cosa giusta che va bene per il figlio, e se ne prende la responsabilità”[5]. Il padre non è colui che fa la legge, ma colui che la rappresenta, la impersona, la umanizza e la segue lui stesso con il suo esempio e con la sua condotta.

L’atteggiamento di ribellione adolescenziale diventa patologico, segno di sofferenza, quando non accetta un minimo di negoziazione, dialogo o rispetto della legge paterna; così l’adolescente può decidere di violare sistematicamente la legge, che è comunque un modo per riconoscerne l’esistenza e non prendersi delle responsabilità, oppure sottomettersi totalmente ad essa, diventando dipendente e garantendo una continuazione infinita dell’infanzia e dell’invischiamento con la famiglia.

La vera crisi della nostra epoca è quella degli adulti che abdicano al proprio ruolo, che non offrono agli adolescenti il modo, lo spazio e la possibilità di esercitare la loro ribellione. L’adolescente non deve sentirsi troppo comodo a casa sua, deve sentire che quella è la casa dei suoi genitori e fintanto che vi rimane sarà sottoposto alla loro legge. Entro questa palestra l’adolescente potrà fare i suoi tentativi per mettere questa legge in discussione, otterrà magari qualche piccola flessibilizzazione, ma non dovrà esserne totalmente soddisfatto, così da sentire la necessità di prendersi la responsabilità di avviare altrove una sua vita autonoma, autoregolata.

L’adolescenza dei figli apre la famiglia al mondo; i ragazzi frequentano da soli ambienti sociali nuovi (scolastici, sportivi, ludici), vengono a contatto con una pluralità di nuove prospettive, idee, visioni e le portano a casa. Se i genitori si chiudono o si oppongono a questo fluire di pensieri nuovi, ostacolano i figli nel loro lavoro di costruzione di un’identità nuova che è anche esito del confronto con le realtà del mondo esterno alla famiglia.

La separazione dal discorso familiare è un processo dialettico, fatto di domande e risposte, di scambi, anche vivaci e conflittuali. Se l’Altro genitoriale non tiene, se non risponde o se non entra in questa dialettica, l’adolescente non può separarsi, ed allora sarà costretto ad esasperare il suo comportamento fino ad arrivare a formazioni sintomatiche o addirittura autodistruttive.

Il compito dell’adolescente è quello di separarsi dal discorso familiare, porsi in maniera dialettica con il mondo esterno, rivolgersi all’Altro sociale, cambiare i partner e cercare nuovi modi di soddisfazione.

La società attuale esalta gli ideali di libertà individuale ed autonomia. In Disagio della civiltà Freud sottolinea come il vivere civile, l’organizzarsi dell’uomo in gruppi sociali, gli abbia assicurato una sicurezza che esige però un costo: la rinuncia ad una parte della sua libertà individuale, non si può fare tutto. La vita associativa richiede una limitazione del principio del piacere, della libertà di procurarsi il godimento; è necessaria principalmente una repressione della pulsione sessuale e della pulsione di morte. La Kultur, il vivere civile, dice Freud, ha la funzione normativa e paterna di civilizzare la pulsione ed è proprio da questa castrazione della pulsione che deriva il disagio. Ad oggi questa castrazione del godimento non regolato è vista non più come una rinuncia inevitabile, ma come un’aggressione alla libertà individuale. Non è più la rinuncia al godimento a creare disagio ma la mancanza di essa, la spinta a godere a tutto spiano, il carpe diem attraverso cui ci si autorizza ad un godere non più mitigato da una regola, da un limite.

Ma questo ci rende davvero più liberi?

Se così fosse come spiegare che questo godimento, di cui c’è offerta abbondante sotto svariate forme, comunque non ci dà una soddisfazione ma anzi porta alla formazione di una psicopatologia che vede il fiorire di “nuovi sintomi”?

La sensazione è che questa libertà di godere a più non posso ci abbia invece trasformati tutti in schiavi di questo stesso godimento.

Hannah Arendt ha definito la condizione del liberismo moderno come la tirannia delle possibilità. In passato il soggetto lottava, faceva rivoluzioni, per conquistare la possibilità di scegliere. Oggi si crede già conquistato il diritto di essere diversi, di scegliere i propri modelli di vita e di felicità. In realtà questa libertà di scelta varia a seconda delle possibilità economiche dell’ambiente in cui si è inseriti: libertà di diritto e libertà di fatto non sono la stessa cosa.

La condizione sociale prevalente ai giorni nostri è la flessibilità; tutto è divenuto “liquido”, tutto è sperimentazione, l’amore è eterno finchè dura, le famiglie si scompongono, ricompongono e poi riscompongono, i partiti politici si smembrano, la produzione industriale viene delocalizzata e via dicendo.

È diventato difficile creare e mantenere dei legami e la rete di sostegno sociale reale è collassata, spesso sostituita dalla rete virtuale dei social dove si possono condividere pensieri, opinioni, timori, intimità addirittura, ma sempre senza impegno, creando legami da cui ci si può sganciare a piacimento e senza dover realmente affrontare l’altro, una rete dove l’altro non esiste.

La via di uscita sembra essere per il soggetto quella di ripristinare la responsabilità per i propri atti. “La psicoanalisi vuole a tal punto un soggetto capace di prendere delle responsabilità e di scegliere, che gli imputa la responsabilità della pulsione e del proprio inconscio”[6]. La funzione dell’analisi è quella di sostenere la coscienza critica, di produrre un soggetto che si assume la responsabilità di una scelta etica, non senza l’altro però, poiché il soggetto non può cavarsela da solo con il proprio godimento, ha necessità di un altro che gli faccia da sponda.

La psicoanalisi vede l’adolescenza come il processo della nascita del soggetto nel campo del simbolico; con Lacan questa assume tutto il suo significato articolandosi nel discorso sociale. Il soggetto è inserito nel campo simbolico, nel campo del linguaggio, viene parlato già prima della sua nascita. L’essere parlante ha l’obbligo di staccarsi dal godimento e di simbolizzarlo attraverso il linguaggio. È questo che è accaduto quando l’uomo ha sostituito il passaggio diretto all’atto con le parole, quando, in preda ad un eccesso aggressivo, ha sostituito il ricorso alla clava con l’inveire o, meglio, con il venire a patti con l’altro. L’utilizzo del linguaggio stacca il godimento dal corpo, permette di fare un lavoro su di esso, il linguaggio castra e doma, limita, il godimento pulsionale. La funzione simbolica è sostenuta dalla funzione paterna che si esplica attraverso la castrazione edipica, la proibizione per il bambino di godere della madre e, dunque, la costrizione a dirigere questo godimento altrove; il padre è colui che separa il bambino dalla madre, inducendolo ad uscire dal suo stato iniziale di dipendenza per assumere un atteggiamento più attivo e autonomo verso se stesso e la propria vita.

Compito della madre è da una parte quello di sostenere la funzione paterna dando uno spazio di considerazione e di valore alla parola del padre, anche laddove questo non sia fisicamente presente (pensiamo a Penelope che tiene vivi in Telemaco il pensiero, la stima e l’amore per il padre lontano), dall’altra parte quello di mantenersi viva come donna, di desiderare come una donna, non solo come una madre.

In modo complementare la cosa migliore che un padre possa fare è mantenere vivo il suo desiderio per la madre di suo figlio, che è la sua donna, e fare di questa donna la causa del suo desiderio.

Andare al di là dell’Edipo significa poter fare a meno del padre a condizione di potersi servire, come supplenza, del linguaggio attraverso il quale inventare e porre il proprio stile di godimento, e questo sarà possibile a condizione che il padre funzioni, che sia desiderante, dunque che mostri una mancanza. Per l’adolescente questo passaggio consiste nel potersi staccare dal discorso dei genitori prendendo su di sé la responsabilità delle proprie soddisfazioni pulsionali che andranno ricercate nel sociale, nel rapporto con l’altro fuori casa.

Ci si stacca dal genitore se questo ha un godimento che non è tutto centrato sul figlio, se può desiderare altrove; se il figlio riesce a cogliere nel genitore questa capacità desiderante allora potrà desiderare a sua volta e potrà trasformare questo desiderio in una domanda da rivolgere all’altro nel sociale.

“La domanda come versione socialmente strutturata della pulsione vuol dire che la pulsione non si esprime allo stato puro, ma si articola attraverso il desiderio. La possibilità di organizzare delle domande, domande di cura ma anche domande al partner sessuale, testimonia del fatto che la pulsione è stata in qualche modo addomesticata perché ricondotta verso i significanti del desiderio. Non si può vivere senza domandare; e un soggetto che è in grado di organizzare delle domande agli altri è un soggetto che è capace di vivere”[7].

Educazione in adolescenza
Dr.ssa Alice Pari, Psicoterapeuta, Psicoanalista


[1] G. Di Giovanni, La crisi in età adolescenziale. Per una clinica psicoanalitica del ragazzo e della famiglia, Borla, Roma 2010, p. 27

[2] P. Feliciotti, Vite di confine. La psicoanalisi e le nuove patologie dell’adolescenza, Franco Angeli s.r.l., Milano, 2005, p. 25

[3] S. Vegetti Finzi, L’età incerta, Mondadori, Milano, 2000, p. 158

[4] P. Feliciotti, Vite di confine. La psicoanalisi e le nuove patologie dell’adolescenza, Franco Angeli s.r.l., Milano, 2005, p. 26

[5] Idem, p. 30

[6] Idem, p. 52

[7] Idem, p. 128

Adolescenza

La mascherata femminile

La mascherata femminile

Velamento e svelamento dell’enigma della femminilità

Mercoledi 5 aprile 2017 ore 21, 00

La mascherata femminile: velamento e svelamento dell’enigma della femminilità –
Presso: Lo Psicobar, Incontri di psicologia al bar
A cura della dr.ssa Isa Gerlini
Sede: “Circolo Milleluci” – Via Isotta degli Atti 8 – Rimini

“Vuoi un po’ di Donna con la maiuscola, cioè un po’ di Femminilità, te ne do. Vuoi dei seni, natiche, la madre, un po’ di mistero, un po’ di debolezza, comprensione e bellezza, ebbene eccotene, da vendere. Non sarò egoista, non sarò forte: sarò il dono fatto donna, sarò maldestra, persino fragile….ma sono proprio io quella che tu vedi?” Liberamente tratto da Gennie Lemoine.

Impigliati o implicati?

Impigliati o implicati?

Collana Follie Ordinarie, Vol. 1
Autori vari, Associazione Giovanni B. Roseo

L’idea di proporre delle conversazioni nella cornice del tema “Impigliati nella rete”, con riferimento non solo a Internet, è venuta per suggerire e mettere a confronto dei pensieri su quanto sta avvenendo nella attualità sociale.

Per i Relatori, che hanno una formazione freudiana, “sociale” va inteso come civiltà, e quindi come relazioni fra gli uomini e conseguente “disagio” che questo comporta.

Così pure “Legame” rimanda sia a una rete alla quale si rimane impigliati che a un sostegno che può proteggere facendo da limite, senza dimenticare la radice comune tra legame e legge.

La soggettività della nostra epoca è fondata sull’imperativo superegoico “devi godere della vita!”. Tutto è messo in atto affinché l’essere umano si adegui sino a condizionarsi a un mondo in cui bisogna consumare i sempre nuovi bisogni inventati senza tregua. Quello che prima era stato un corpo produttivo è ora incitato al consumo. Inoltre non sa cosa farsene di soggetti che valorizzano la propria singolarità, si preferisce un soggetto che fluttui tra identità sempre nuove.

La psicanalisi, al contrario, ha come obbiettivo la riappropriazione da parte del soggetto della sua libertà fuori dagli schemi identificativi precostituiti. La struttura del collettivo è ora senza dubbio molto diversa da quella che aveva incontrato Freud: il legame non si istituisce sul versante dell’amore ideale o verso l’altro, ma verso la condivisione di oggetti di godimento.

La psicanalisi, inventata per rispondere a un disagio nella civiltà, di un soggetto inserito nella società, è ancora in grado di rispondere al malessere sempre più diffuso del vivere quotidiano?

Un vivere che è sempre più immerso nella realtà virtuale di Internet dove si passa velocemente da una identità a un’altra e la realtà al di qua dello schermo diventa una sola delle possibili realtà …

In questa raccolta è possibile trovare l’articolo di Alice Pari “Femminicidio”

Versione ebook formato Kindle

Colori e forme per il web design

Colori e forme per il web design
colori e forme per il web design

Come usare colori e forme per il web design

Hai un sito web? Che tu sia un professionista o un appassionato, questo libro fa per te. Ti fornirà strumenti conoscitivi che ti permetteranno di costruire un sito efficace nel trasmettere ogni tipo di messaggio che tu desideri veicolare.
Ti spiegherò come raggiungere l’inconscio dei tuoi utenti target e come suggerire, o suscitare, uno stato emotivo predisponente alla penetrazione della tua comunicazione.
Tali strumenti trovano la loro applicazione elettiva nel campo della pubblicizzazione e della vendita online, e dunque dell’e-commerce, ma possono essere altrettanto opportunamente impiegati per qualunque altro tipo di sito in cui tu voglia cimentarti: commerciale, aziendale, professionale, di pubbliche relazioni, culturale, scolastico, sociale, no profit, personale, blog.

Nella categoria Colori e forme per il web design troverai spunti e suggerimenti per aumentare l’efficacia inconscia del tuo sito. Buona lettura!

 Versione cartacea

 E-book