È necessario innanzitutto distinguere tra psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista.
Lo psicologo ha competenze di diagnosi e sostegno, non di cura.
Lo psicoterapeuta si dedica alla terapia, alla cura, di sintomi singoli o specifici che mettono in sofferenza la persona.
Lo psicoterapeuta psicoanalista porta avanti la cura a livello profondo, fino a ritrovare l’origine del sintomo e a comprenderne la funzione nella vita della persona.
Il processo psicoanalitico si basa sul concetto di transfert, scoperto da Freud come processo spontaneo tra analista e paziente; esso si presenta come una riedizione, portata all’interno della relazione attuale con la persona del terapeuta, di esperienze psichiche che il paziente ha avuto con persone significative del passato. Il transfert può essere positivo o negativo, possono cioè essere indirizzati al terapeuta sentimenti positivi o negativi.
Lacan chiarisce ulteriormente la natura del transfert suggerendo che non si può parlare di transfert senza parlare di amore e di desiderio dell’altro. Rifacendosi all’Hegel letto da Kojève, egli trae la tesi che l’essere umano desidera il desiderio dell’altro. L’espressione “il desiderio dell’altro” ha un doppio significato: da un lato istituisce l’altro come oggetto del mio desiderio, dall’altro rende me l’oggetto del desiderio dell’altro.
Nella teoria lacaniana del transfert la dimensione dell’amore si annoda naturalmente anche a quella del sapere; l’analista è investito eroticamente nel transfert analitico in quanto egli è ritenuto possedere il sapere sull’inconscio, ciò che c’è di più intimo per il soggetto. Sull’analista viene dunque trasferito l’amore per l’esistenza di un sapere di cui egli disporrebbe, ma che il soggetto non sa. L’analista ha sempre presente che questo amore che il paziente gli indirizza non riguarda lui come persona, ma il sapere riguardo all’intimità del paziente che egli è supposto possedere.
L’analista saprà allora indirizzare questa domanda di sapere verso la verità dell’inconscio del paziente, la verità del suo desiderio, della sua sofferenza sintomatica, il suo Perché sto male? Cosa vuol dire questo mio stare male?
Questo è il primo passo per spezzare una potenziale dipendenza del paziente dall’analista, metterlo nella condizione di essere lui in prima persona ad interrogare ed indagare il suo sintomo, metterlo al lavoro.
È anche possibile che il soggetto arrivi dall’analista senza la consapevolezza di avere un sintomo, poi il fatto di rivolgersi ad uno psicoanalista, di cominciare a parlare, può far sì che egli colga di avere un comportamento, una sofferenza, sul cui significato iniziare ad interrogarsi.
Per Freud esistono tre mestieri impossibili: governare, educare e curare, che corrispondono anche a tre possibili cedimenti dalla posizione dell’analista.
Se l’analista pensa di poter governare non la cura ma la vita del paziente scivola verso la posizione, il discorso, del padrone, di cui tratta Lacan nel Seminario XVII.
Se l’analista pensa di poter educare rischia di scivolare verso la posizione del maestro, e va ricordato che «l’educazione più aberrante non ha mai avuto altro motivo che il bene del soggetto»[1].
Se l’analista pensa di poter curare scivola verso la posizione del medico: colui che è depositario del sapere, del discorso della scienza, dal quale si rischia il ricorso alla quantificazione, alla riduzione del fenomeno a cifra, protocollo, misurazione e valutazione, come vediamo nel sempre maggior ricorso a diagnosi di DSA, BES, ADHD, ecc…
Il desiderio dell’analista è sempre rivolto al volerne sapere dell’inconscio e del desiderio dell’altro che si configura come un enigma. Il non rispondere da parte dell’analista alla domanda d’amore, di accudimento, di sostegno del paziente, mantiene aperta ed operativa la possibilità per il paziente di rimanere non dipendente dall’analista e di interrogarsi sulla sua verità inconscia. In definitiva, il dispositivo analitico non è altro che un modo di riattivare l’inconscio.
«La dinamica della cura dipende dal desiderio che spinge verso un nuovo sapere da scoprire. L’analisi non si fa senza l’analista. Il transfert è articolato con il desiderio dell’analista»[2].
Rispetto al momento di conclusione di un’analisi Freud nel suo testo Analisi terminabile e interminabile ci dà delle precise indicazioni:
Occorre innanzitutto mettere l’accento su ciò che intendiamo con l’espressione polivalente di “fine di un’analisi”. […] La prima è che il paziente non soffra più dei suoi sintomi e delle sue angosce, nonché delle sue inibizioni; la seconda è che l’analisi giudichi che il malato è stato reso tanto cosciente relativamente al materiale rimosso, che sono state debellate tante resistenze, che non c’è da temere il rinnovarsi dei processi patologici in questione. […] L’altro significato dell’espressione “fine di un’analisi” è di gran lunga più ambizioso. In nome di esso ciò che ci domandiamo è se l’azione esercitata sul paziente è stata portata tanto avanti che da una continuazione dell’analisi non ci si possa ripromettere alcun ulteriore cambiamento. […] L’analisi deve determinare le condizioni psicologiche più favorevoli al funzionamento dell’Io; fatto questo, il suo compito può dirsi assolto[3].
Alla fine dell’analisi il soggetto avrà imparato ad avere a che fare in modo più efficace con il suo sintomo (per quanto ne rimarrà sempre una coda, una parte che non potrà essere completamente eliminata) ed a quel punto l’analista potrà essere lasciato cadere, evacuato. In alcuni casi il paziente può non riuscire a fare questo distacco spontaneamente e starà all’analista, attraverso i sogni, i lapsus le dimenticanze e le altre forme dell’inconscio portate in seduta, ascoltare il “non detto” del paziente ed accompagnarlo nella decisione di terminare la terapia. Un terapeuta che conduca la cura in modo etico e competente potrà segnalare al paziente quando è il momento di concludere il percorso.
Alice Pari, Psicoterapeuta, Psicoanalista
Oriana Ermeti, Psicoterapeuta, Psicoanalista
[1] J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere (1958), in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 615.
[2] G. Briole, Cambiare analista, in: J.-A. Miller, Chi sono i vostri psicoanalisti?, Astrolabio, Roma, 2003, p. 144.
[3] S. Freud, Opere complete, Opere 11, Analisi terminabile e interminabile, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2013, Formato Kindle.
Ringrazio Ohga per la pubblicazione di questa intervista in:
Il femminicidio è la manifestazione ultima e
suprema di violenza di genere contro le donne, conseguenza spesso di una
sistematica ed estesa violazione dei loro diritti umani in ambito pubblico e
privato.
L’orientamento psicoanalitico legge questo
fenomeno a partire non dalla dimensione sociale ma dall’inconscio, introducendo
una dimensione etica che prende in considerazione la singolarità, il caso per
caso, tentando di andare oltre la logica universale vittima-carnefice e di
indagare la complessità e la criticità del rapporto tra i sessi e della
relazione con l’Altro.
Freud aveva individuato nel rifiuto della
femminilità il maggiore ostacolo alla relazione tra uomini e donne ed ha anche sottolineato
come la pulsione di vita e la pulsione di morte siano strettamente ed
inscindibilmente connesse facendo sì che ogni relazione amorosa sia intessuta
anche di sentimenti d’odio.
Jacques-Alain Miller afferma che l’uomo e la donna
sono due razze non dal punto di vista biologico ma per quanto riguarda il godimento[1];
ciò che si odia è dunque il godimento dell’Altro.
Tra uomini e donne c’è una differenza costitutiva
fondamentale, sono due pianeti diversi dice John Gray[2],
differenza che spesso risulta impossibile da sopportare.
Freud definisce la donna “un continente nero”, un
enigma per l’uomo, ma anche per la donna stessa e lascia aperto ai successori
un interrogativo al quale non riesce a rispondere: Che cosa vuole una donna?
Rinveniamo numerosi fatti di cronaca che riportano
storie di stalking, aggressioni, stupri o uccisioni di donne, ma non si deve
dimenticare che ciò che emerge dai media è solo parte di una realtà radicata e
diffusa fatta di maltrattamenti, persecuzioni, umiliazioni e violenze contro le
donne perpetrate quotidianamente nel silenzio, spesso assenso, generale.
Si rende urgente «una politica di prevenzione
della violenza di genere fondata sulla consapevolezza che le sue radici stanno
in una violazione morale e simbolica della donna e della sua dignità»[3].
Nonostante un lavoro decennale per la rivendicazione e la progressiva, lenta,
integrazione dei diritti di pari opportunità, viviamo tuttora in un tessuto
sociale e culturale che discrimina e colpisce la donna in ogni settore. È
ancora preponderante nei media l’uso e l’abuso del corpo femminile ridotto ad
oggetto e degradato, privato del suo pudore e del suo valore simbolico con
l’effetto di sostenere ed alimentare una cultura machista e sessista.
È ancora tristemente attuale il monito di Simone
de Beauvoir «Non dimenticare mai
che una crisi politica, economica o religiosa sarà sufficiente per mettere in
discussione i diritti delle donne. Questi diritti non saranno mai acquisiti.
Dovrai rimanere vigile per tutta la vita». La crisi politica ed economica che stiamo vivendo
contribuisce a fomentare un clima di incertezza e paura che favorisce una
regressione civile e sociale caratterizzata dal riemergere delle ataviche
pulsioni contro il genere femminile. Fin da sempre nei tempi di crisi (guerre,
carestie, rivoluzioni, eccetera) le donne vengono investite e sovraccaricate
non solo di richieste e pretese ma anche di funzione di capro espiatorio su cui
scaricare aggressività e frustrazioni.
La violenza, l’odio, il disprezzo si palesano ogni
volta che la donna non si fa trovare là dove un uomo la posiziona. Si assiste a
un paradosso: più l’emancipazione della donna avanza, e più l’uomo perde la sua
identità e la perseguita “o mia o di nessun altro”. Ma questo non vuol dire che
non ci possa essere un incontro felice tra un uomo e una donna, fondato sulla
parola d’amore.
La violenza sulle donne potrà essere debellata
solo operando sugli stereotipi sociali e culturali su cui si fonda, svolgendo
un lavoro di sensibilizzazione e formazione che faccia nascere, col tempo, un mutamento
culturale profondo e radicale. Il nucleo di questo cambiamento sarà il favorire
una politica di riconoscimento ed accoglienza delle differenze, prima di tutte
quella di genere.
Nelle formule della sessuazione Lacan distingue le
modalità di godimento maschile da quello femminile. «Mentre il primo è
concentrato sull’avere, sulla misura, sul controllo, sul principio di
prestazione, sul possesso dell’oggetto, sulla sua moltiplicazione seriale
(godimento fallico); quello femminile appare senza misura, irriducibile
all’organo, molteplice, invisibile, non contabilizzabile, infinito (godimento
al di là del fallo)»[4].
Nel rapporto tra un uomo ed una donna, a causa della diversità del loro
godimento, non può esserci né completezza, né simmetria, né reciprocità.
Uccidere l’altro è segno dell’odio che ciascuno di
noi ha per l’Altro, per il diverso, per la differenza irriducibile. Gli uomini
spesso non riescono a sopportare l’alterità del desiderio delle donne, il loro
modo di desiderare altrove (le amiche, la carriera, i figli) che viene visto
come un tradimento alla promessa d’amore.
Il legame d’amore, così come il legame sociale, ha
un’origine immaginaria e consiste in un processo di identificazione tramite il
quale un individuo trova nell’altro degli aspetti che gli sono simili, o
dissimili. Questo aspetto immaginario del legame è anche l’asse dove si colloca
il binomio amore/odio. La psicoanalisi ha mostrato come, per entrare nel legame
d’amore, sia però anche necessaria l’accettazione di una rinuncia, di una
perdita costitutiva, della consapevolezza che tale legame non potrà mai essere totalmente
soddisfacente ed esauriente. L’individuo dovrà essere disposto a perdere
qualcosa, ad accettare di non potersi soddisfare totalmente lì, ma soprattutto
ad accettare che tale legame sarà sottoposto ad una Legge simbolica che sarà al
di sopra di entrambe le parti. L’impossibilità ad accettare questa perdita
rende il legame fragile e fa emergere l’asse immaginario, dunque il binomio
amore/odio.
Allora quando un uomo uccide una donna, chi
uccide? Nella società del capitalismo che dà l’imperativo di godere attraverso
il consumo massiccio dell’oggetto il discorso femminile è quello della singolarità,
di un godimento che è al di fuori del fallo, della sopraffazione e del
primeggiare sull’altro; il godimento femminile è qualcosa che non può essere
padroneggiato, domato, previsto, è totalmente enigmatico persino alla donna
stessa.
Il godimento femminile è altro rispetto a quello
maschile. Lacan utilizza un gioco di parole trasformando il francese normal, normale, in norme-mâle, norma maschile ponendo l’accento sul tratto maschile
della norma, la regolazione, il tutto, l’universale, in opposizione all’enigma,
il non tutto e il singolare del femminile che dunque, essendo peculiare di ogni
singola donna, non ha una norma.
Il mistero del godimento femminile è indecifrabile,
non esaurito dal significante fallico ma sempre con la necessità di un altrove,
e l’essere umano ha timore e fastidio di tutto ciò che non può comprendere,
misurare, controllare. Si fa allora una distinzione netta tra godimento
femminile, della donna, e godimento materno, della madre, assegnando a
quest’ultima un’aura di dolcezza, santità quasi, nonostante la clinica mostri
quotidianamente la devastazione che tale godimento è capace di portare sui
figli quando non è mitigato da un desiderio verso un uomo, una professione, una
cerchia sociale, un altrove insomma.
Il godimento femminile turba e spaventa fino a
risultare insopportabile, odioso addirittura, esattamente come accade con i
modi di vivere, le usanze, gli odori e i sapori dello straniero, del migrante,
dell’extracomunitario, portatori di una peculiare diversità.
La psicoanalisi ha messo in evidenza come il primo
e più importante straniero sia per ciascuno il proprio inconscio, un’intima
estraneità a se stessi che riguarda ciascuno.
Ma il godimento femminile risulta inafferrabile ed
indecifrabile alla donna stessa che rimane smarrita davanti al proprio enigma e
va alla ricerca di conferme riguardo alla propria desiderabilità, ed
addirittura esistenza, da parte del partner, a volte anche a caro prezzo,
quando la conferma passa per la violenza. L’ideale dell’amore diventa dunque ciò
che può dare consistenza al vuoto di identità di una donna, rispondendo alla
sua necessità di sentirsi degna di essere amata e di esistere; l’innamoramento
può rendere una donna cieca alla possibilità di riconoscere un partner che
possa essere degno, disposto a farsi non complice ma compagno, disposto alla
condivisione e non all’affermazione delle proprie ragioni.
Un uomo interessato a comprendere l’enigma del godimento femminile, e da esso affascinato, è un uomo veramente interessato alla sua donna e può rivelarsi un partner degno. L’amare una persona non dà alcun diritto su di lei, non perché ti amo tu devi fare ciò che ti dico. Nessuno possiede una verità, una definizione precisa, su cosa sia l’amore; certo non è un diritto, né un dovere, ma probabilmente ha qualcosa a che fare col fare un lavoro di pensiero, una faticosa e impegnativa costruzione di un patto, una collaborazione, che mira al conseguimento di un guadagno, un benessere, reciproco e comune.
[1] J.-A.
Miller, Extimitè. Corso tenuto all’Università Parigi VIII 1985-1986 (inedito), lezione
del 27/11/1985
[2] J. Gray,
Gli uomini vengono da Marte le donne da Venere, Rizzoli, Milano, 1992
Libertà e responsabilità genitoriale nell’adolescenza
L’adolescenza è il momento in cui l’individuo viene chiamato ad assumersi la sua responsabilità sessuale e sociale. Nell’infanzia il bambino era totalmente affidato alla responsabilità del genitore; dopo questo passaggio il ragazzo, e l’adulto poi, dovrà farsi carico di responsabilità proprie, potrà forse cercare di sfuggirle, ma non potrà più certamente dichiararsene estraneo. Il ragazzo conosce quali sono i compiti degli adulti, avendo avuto modo di osservandoli fin dalla nascita, e con l’adolescenza viene pian piano chiamato a farsene carico, ad assumerseli in prima persona rispondendo circa la loro corretta esecuzione. L’adolescente inizia con timore questo cammino verso la vita adulta, cercando un modello di riferimento, di identificazione tra coloro che questo percorso l’hanno già portato a termine.
Un tempo egli incontrava la presenza massiccia e consistente di una comunità che con le sue regole, anche rigide, offriva punti di riferimento sicuri, o riti di passaggio che orientavano in qualche modo il percorso. Nella società moderna queste regole fisse e salde si sono attenuate, fino quasi a scomparire. Esiste una difficoltà a vedere, a stabilire un limite, una fine di questo periodo adolescenziale, dovuta in massima parte alla difficoltà ad accettare un taglio, una mancanza, una rinuncia; ad esempio i ragazzi non vengono più incoraggiati ad uscire di casa o spesso non lo fanno per non rinunciare alla comodità o all’agiatezza che il continuare a vivere in famiglia può garantire loro, a fronte dei sacrifici e delle privazioni che dovrebbero patire nell’avviarsi faticosamente verso l’autonomia, e così vediamo adolescenze prolungarsi anche oltre i 30 anni. In questi casi l’adolescenza perde il suo carattere di età di passaggio per diventare quasi una identità definitiva, benchè immatura (come nella sindrome di Peter Pan).
Questo rifiuto di accettare il taglio, la mancanza, il limite, porta all’incapacità di percepire la fine di qualcosa come l’inizio di un’altra, di poter compiere il passaggio generazionale, ostacolato a volte anche dalla difficoltà degli adulti di accettare il proprio limite, la propria fine, e di lasciare lo spazio ai successori delle nuove generazioni.
L’adolescenza
è il tempo in cui il ragazzo è chiamato ad elaborare il lutto per la propria
infanzia, ma anche per i genitori devono elaborare la perdita del loro
“bambino” e contemporaneamente accettare che si avvicina il tempo di cedere le
redini, di lasciare che si compia il passaggio generazionale. I tempi moderni,
con il mito dell’eterna giovinezza e con le adolescenze prolungate oltre ogni
limite, certamente non aiutano questo processo. Dice Giovanna Di Giovanni: “Da
questa fuga degli adulti dallo scorrere della vita e quindi dall’accettazione
della sua fine, della morte, ci sembra che l’adolescente sia bloccato più che
da qualsiasi abdicazione di ruolo educativo. O più precisamente, nessuna
assunzione di responsabilità può essere realmente possibile da parte degli
adulti se non è accettato un ruolo e un tempo definiti per attuarla, se non è
ammesso che ogni guida è lì per essere sorpassata e che il ragazzo presentifica
il passaggio inevitabile”[1].
Se
da una parte si muove una critica al ragazzo che cerca di allontanare
l’assunzione delle proprie responsabilità, dall’altra però anche gli adulti in
qualche modo respingono le proprie. I genitori trincerandosi dietro una pretesa
di modernità e alla difficoltà a frustrare i propri figli, gli insegnanti, a
volte, dietro ad un ruolo tecnico e conoscitivo che non possono trascurare. Si
moltiplicano allora le diagnosi di disturbi o devianze (DSA, BES, ecc…), così
come la pubblicazione di manuali per i genitori moderni, quasi che una
etichetta di patologia o il ricorso ad un sapere universale ed anonimo potesse
sostituire l’implicazione individuale nella cura di quel particolare bambino o
ragazzo. Infatti, se è vero, come dice Freud in Psicologia delle masse ed analisi dell’Io, che l’individuo è
sociale fin dall’inizio della sua vita, è altrettanto vero che una società
veramente umana prende in considerazioni gli individui nella propria
singolarità e che l’individuo solo svincolato dalla massa e dalle sue pressioni
può recuperare la responsabilità delle proprie azioni e del proprio pensiero.
L’adolescenza
è quel processo attraverso il quale il soggetto esce dalla scena familiare ed
entra in quella sociale. Staccandosi da quel canovaccio che è sempre stato
scritto da altri per lui, l’adolescente ha il compito di trovare un’altra
scena, quella sociale appunto, in cui riuscire a dire quello che vuole, con le
sue parole, cercando e trovando il suo desiderio, avendo la possibilità di
esprimere le sue pulsioni libidiche al di fuori della famiglia.
“Diventare
adulti vuol dire assumere responsabilità nuove, inventare nuovi modi di vivere”[2].
“Se
sullo scenario sociale questo significa spodestare la generazione precedente,
su quello familiare significa spodestare il padre, la madre, per assumere il
ruolo di donna e di uomo”[3].
Con
questo processo l’adolescente arriva ad assumere una responsabilità simile a
quella del padre, fonda un ordine, una Legge sua, che prende lo spunto da
quello in cui è cresciuto ma che viene rielaborata secondo la propria
singolarità. Il cambiamento è qui necessariamente il frutto di un conflitto, di
un “essere contro” che ha la funzione di confrontarsi con la famiglia e la
società. La devianza è un processo necessario; l’adolescente deve deviare dal
percorso che i genitori gli hanno costruito ancor prima che nascesse, dal suo
essere parlato ancor prima che nascesse. Tutte le identificazioni devono
cadere, tutto ciò che si è detto di lui deve lasciar posto ad un dire di sé, ad
uno scegliere cosa tenere e cosa buttare, ad un ricostruirsi su basi autonome.
Uscire
dal posto che gli hanno assegnato i genitori non vuol dire necessariamente
rinnegarlo, significa costruirsi un proprio stile, un proprio modo di vivere
nella società umana, un proprio stile di godimento.
Piero
Feliciotti, in Vite di confine,
sottolinea che una famiglia sana non è quella in cui non ci sono conflitti e
ribellioni, ma quella capace di trasformare la forza del conflitto e del
dissenso in fattori di cambiamento, e non di devianza psicopatologica. È
indispensabile che l’adolescente possa ribellarsi alla dipendenza dei genitori
senza avere paura di poterli distruggere davvero, ma avendo un’intima certezza
che essi saranno sempre lì, come nel tiro alla fune, a tenere l’altro capo
della corda. La responsabilità principale dei genitori è propria questa, tenere
saldamente l’altro capo della corda, tenere una posizione di fiducia in sé, nel
figlio e nella relazione reciproca.
La
ribellione nell’adolescenza ha un doppio significato: da un lato è una fuga
dall’Altro, ma rappresenta anche un fortissimo appello all’Altro, anche sotto
forma di provocazione. Si fugge dunque dal primo oggetto d’amore, ma si
continua a fare appello alla sua funzione simbolica alla quale non si può
rinunciare poiché è impossibile non avere un posto nell’ordine, nella
successione, delle generazioni.
Le
provocazioni sono uno “sperimentare se l’Altro tiene, se fa da sponda, se tutto
il sistema di valori e di parole è qualcosa che l’adulto sostiene con la
testimonianza della sua vita o se è buttato lì tanto per fare una predica “come
se” l’adulto ci credesse. L’adolescenza è terribilmente esigente sull’etica,
anche se è tollerante sulla morale”[4].
La
legge paterna è un principio etico, è un principio di autorità in virtù del
quale c’è un padre che si autorizza a fare delle scelte, a dare un senso alle
cose o alle parole. È incarnato dal padre ma deve essere sostenuto e
riconosciuto anche dalla madre. “Il padre è quello che alla fine di tuti i
discorsi o di tutte le possibili spiegazioni, alla fine di tutti i perché, si
permette di dire una cosa assurda: è così perché è così, è così perché lo dico
io. Con questo si assume l’onere della prova, cioè dimostra come e cosa si deve
fare, anche se e proprio perché non esiste la spiegazione scientifica. Però il
padre fa “come se” sapesse qual è la cosa giusta che va bene per il figlio, e
se ne prende la responsabilità”[5].
Il padre non è colui che fa la legge, ma colui che la rappresenta, la
impersona, la umanizza e la segue lui stesso con il suo esempio e con la sua condotta.
L’atteggiamento
di ribellione adolescenziale diventa patologico, segno di sofferenza, quando
non accetta un minimo di negoziazione, dialogo o rispetto della legge paterna;
così l’adolescente può decidere di violare sistematicamente la legge, che è
comunque un modo per riconoscerne l’esistenza e non prendersi delle
responsabilità, oppure sottomettersi totalmente ad essa, diventando dipendente
e garantendo una continuazione infinita dell’infanzia e dell’invischiamento con
la famiglia.
La
vera crisi della nostra epoca è quella degli adulti che abdicano al proprio
ruolo, che non offrono agli adolescenti il modo, lo spazio e la possibilità di
esercitare la loro ribellione. L’adolescente non deve sentirsi troppo comodo a
casa sua, deve sentire che quella è la casa dei suoi genitori e fintanto che vi
rimane sarà sottoposto alla loro legge. Entro questa palestra l’adolescente
potrà fare i suoi tentativi per mettere questa legge in discussione, otterrà
magari qualche piccola flessibilizzazione, ma non dovrà esserne totalmente
soddisfatto, così da sentire la necessità di prendersi la responsabilità di
avviare altrove una sua vita autonoma, autoregolata.
L’adolescenza
dei figli apre la famiglia al mondo; i ragazzi frequentano da soli ambienti
sociali nuovi (scolastici, sportivi, ludici), vengono a contatto con una
pluralità di nuove prospettive, idee, visioni e le portano a casa. Se i
genitori si chiudono o si oppongono a questo fluire di pensieri nuovi,
ostacolano i figli nel loro lavoro di costruzione di un’identità nuova che è
anche esito del confronto con le realtà del mondo esterno alla famiglia.
La
separazione dal discorso familiare è un processo dialettico, fatto di domande e
risposte, di scambi, anche vivaci e conflittuali. Se l’Altro genitoriale non
tiene, se non risponde o se non entra in questa dialettica, l’adolescente non
può separarsi, ed allora sarà costretto ad esasperare il suo comportamento fino
ad arrivare a formazioni sintomatiche o addirittura autodistruttive.
Il
compito dell’adolescente è quello di separarsi dal discorso familiare, porsi in
maniera dialettica con il mondo esterno, rivolgersi all’Altro sociale, cambiare
i partner e cercare nuovi modi di soddisfazione.
La
società attuale esalta gli ideali di libertà individuale ed autonomia. In Disagio della civiltà Freud sottolinea
come il vivere civile, l’organizzarsi dell’uomo in gruppi sociali, gli abbia
assicurato una sicurezza che esige però un costo: la rinuncia ad una parte
della sua libertà individuale, non si può fare tutto. La vita associativa
richiede una limitazione del principio del piacere, della libertà di procurarsi
il godimento; è necessaria principalmente una repressione della pulsione
sessuale e della pulsione di morte. La Kultur,
il vivere civile, dice Freud, ha la funzione normativa e paterna di civilizzare
la pulsione ed è proprio da questa castrazione della pulsione che deriva il
disagio. Ad oggi questa castrazione del godimento non regolato è vista non più come
una rinuncia inevitabile, ma come un’aggressione alla libertà individuale. Non
è più la rinuncia al godimento a creare disagio ma la mancanza di essa, la
spinta a godere a tutto spiano, il carpe
diem attraverso cui ci si autorizza ad un godere non più mitigato da una
regola, da un limite.
Ma
questo ci rende davvero più liberi?
Se
così fosse come spiegare che questo godimento, di cui c’è offerta abbondante
sotto svariate forme, comunque non ci dà una soddisfazione ma anzi porta alla
formazione di una psicopatologia che vede il fiorire di “nuovi sintomi”?
La
sensazione è che questa libertà di godere a più non posso ci abbia invece
trasformati tutti in schiavi di questo stesso godimento.
Hannah
Arendt ha definito la condizione del liberismo moderno come la tirannia delle
possibilità. In passato il soggetto lottava, faceva rivoluzioni, per
conquistare la possibilità di scegliere. Oggi si crede già conquistato il
diritto di essere diversi, di scegliere i propri modelli di vita e di felicità.
In realtà questa libertà di scelta varia a seconda delle possibilità economiche
dell’ambiente in cui si è inseriti: libertà di diritto e libertà di fatto non
sono la stessa cosa.
La
condizione sociale prevalente ai giorni nostri è la flessibilità; tutto è
divenuto “liquido”, tutto è sperimentazione, l’amore è eterno finchè dura, le
famiglie si scompongono, ricompongono e poi riscompongono, i partiti politici
si smembrano, la produzione industriale viene delocalizzata e via dicendo.
È
diventato difficile creare e mantenere dei legami e la rete di sostegno sociale
reale è collassata, spesso sostituita dalla rete virtuale dei social dove si possono condividere
pensieri, opinioni, timori, intimità addirittura, ma sempre senza impegno, creando
legami da cui ci si può sganciare a piacimento e senza dover realmente
affrontare l’altro, una rete dove l’altro non esiste.
La
via di uscita sembra essere per il soggetto quella di ripristinare la
responsabilità per i propri atti. “La psicoanalisi vuole a tal punto un
soggetto capace di prendere delle responsabilità e di scegliere, che gli imputa
la responsabilità della pulsione e del proprio inconscio”[6].
La funzione dell’analisi è quella di sostenere la coscienza critica, di
produrre un soggetto che si assume la responsabilità di una scelta etica, non
senza l’altro però, poiché il soggetto non può cavarsela da solo con il proprio
godimento, ha necessità di un altro che gli faccia da sponda.
La
psicoanalisi vede l’adolescenza come il processo della nascita del soggetto nel
campo del simbolico; con Lacan questa assume tutto il suo significato
articolandosi nel discorso sociale. Il soggetto è inserito nel campo simbolico,
nel campo del linguaggio, viene parlato già prima della sua nascita. L’essere
parlante ha l’obbligo di staccarsi dal godimento e di simbolizzarlo attraverso
il linguaggio. È questo che è accaduto quando l’uomo ha sostituito il passaggio
diretto all’atto con le parole, quando, in preda ad un eccesso aggressivo, ha
sostituito il ricorso alla clava con l’inveire o, meglio, con il venire a patti
con l’altro. L’utilizzo del linguaggio stacca il godimento dal corpo, permette
di fare un lavoro su di esso, il linguaggio castra e doma, limita, il godimento
pulsionale. La funzione simbolica è sostenuta dalla funzione paterna che si
esplica attraverso la castrazione edipica, la proibizione per il bambino di
godere della madre e, dunque, la costrizione a dirigere questo godimento
altrove; il padre è colui che separa il bambino dalla madre, inducendolo ad
uscire dal suo stato iniziale di dipendenza per assumere un atteggiamento più
attivo e autonomo verso se stesso e la propria vita.
Compito
della madre è da una parte quello di sostenere la funzione paterna dando uno
spazio di considerazione e di valore alla parola del padre, anche laddove
questo non sia fisicamente presente (pensiamo a Penelope che tiene vivi in
Telemaco il pensiero, la stima e l’amore per il padre lontano), dall’altra
parte quello di mantenersi viva come donna, di desiderare come una donna, non
solo come una madre.
In
modo complementare la cosa migliore che un padre possa fare è mantenere vivo il
suo desiderio per la madre di suo figlio, che è la sua donna, e fare di questa
donna la causa del suo desiderio.
Andare
al di là dell’Edipo significa poter fare a meno del padre a condizione di
potersi servire, come supplenza, del linguaggio attraverso il quale inventare e
porre il proprio stile di godimento, e questo sarà possibile a condizione che
il padre funzioni, che sia desiderante, dunque che mostri una mancanza. Per
l’adolescente questo passaggio consiste nel potersi staccare dal discorso dei
genitori prendendo su di sé la responsabilità delle proprie soddisfazioni
pulsionali che andranno ricercate nel sociale, nel rapporto con l’altro fuori
casa.
Ci
si stacca dal genitore se questo ha un godimento che non è tutto centrato sul
figlio, se può desiderare altrove; se il figlio riesce a cogliere nel genitore
questa capacità desiderante allora potrà desiderare a sua volta e potrà trasformare
questo desiderio in una domanda da rivolgere all’altro nel sociale.
“La
domanda come versione socialmente strutturata della pulsione vuol dire che la
pulsione non si esprime allo stato puro, ma si articola attraverso il
desiderio. La possibilità di organizzare delle domande, domande di cura ma
anche domande al partner sessuale, testimonia del fatto che la pulsione è stata
in qualche modo addomesticata perché ricondotta verso i significanti del
desiderio. Non si può vivere senza domandare; e un soggetto che è in grado di
organizzare delle domande agli altri è un soggetto che è capace di vivere”[7].
Educazione in adolescenza Dr.ssa Alice Pari, Psicoterapeuta, Psicoanalista
[1] G. Di
Giovanni, La crisi in età adolescenziale.
Per una clinica psicoanalitica del ragazzo e della famiglia, Borla, Roma
2010, p. 27
[2] P.
Feliciotti, Vite di confine. La
psicoanalisi e le nuove patologie dell’adolescenza, Franco Angeli s.r.l.,
Milano, 2005, p. 25
[3] S.
Vegetti Finzi, L’età incerta, Mondadori,
Milano, 2000, p. 158
[4] P.
Feliciotti, Vite di confine. La
psicoanalisi e le nuove patologie dell’adolescenza, Franco Angeli s.r.l.,
Milano, 2005, p. 26
Velamento e svelamento dell’enigma della femminilità
Mercoledi 5 aprile 2017 ore 21, 00
La mascherata femminile: velamento e svelamento dell’enigma della femminilità – Presso: Lo Psicobar, Incontri di psicologia al bar A cura della dr.ssa Isa Gerlini Sede: “Circolo Milleluci” – Via Isotta degli Atti 8 – Rimini
“Vuoi un po’ di Donna con la maiuscola, cioè un po’ di Femminilità, te ne do. Vuoi dei seni, natiche, la madre, un po’ di mistero, un po’ di debolezza, comprensione e bellezza, ebbene eccotene, da vendere. Non sarò egoista, non sarò forte: sarò il dono fatto donna, sarò maldestra, persino fragile….ma sono proprio io quella che tu vedi?” Liberamente tratto da Gennie Lemoine.
Collana Follie Ordinarie, Vol. 1 Autori vari, Associazione Giovanni B. Roseo
L’idea di proporre delle conversazioni nella cornice del tema “Impigliati nella rete”, con riferimento non solo a Internet, è venuta per suggerire e mettere a confronto dei pensieri su quanto sta avvenendo nella attualità sociale.
Per i Relatori, che hanno una formazione freudiana, “sociale” va inteso come civiltà, e quindi come relazioni fra gli uomini e conseguente “disagio” che questo comporta.
Così pure “Legame” rimanda sia a una rete alla quale si rimane impigliati che a un sostegno che può proteggere facendo da limite, senza dimenticare la radice comune tra legame e legge.
La soggettività della nostra epoca è fondata sull’imperativo superegoico “devi godere della vita!”. Tutto è messo in atto affinché l’essere umano si adegui sino a condizionarsi a un mondo in cui bisogna consumare i sempre nuovi bisogni inventati senza tregua. Quello che prima era stato un corpo produttivo è ora incitato al consumo. Inoltre non sa cosa farsene di soggetti che valorizzano la propria singolarità, si preferisce un soggetto che fluttui tra identità sempre nuove.
La psicanalisi, al contrario, ha come obbiettivo la riappropriazione da parte del soggetto della sua libertà fuori dagli schemi identificativi precostituiti. La struttura del collettivo è ora senza dubbio molto diversa da quella che aveva incontrato Freud: il legame non si istituisce sul versante dell’amore ideale o verso l’altro, ma verso la condivisione di oggetti di godimento.
La psicanalisi, inventata per rispondere a un disagio nella civiltà, di un soggetto inserito nella società, è ancora in grado di rispondere al malessere sempre più diffuso del vivere quotidiano?
Un vivere che è sempre più immerso nella realtà virtuale di Internet dove si passa velocemente da una identità a un’altra e la realtà al di qua dello schermo diventa una sola delle possibili realtà …
In questa raccolta è possibile trovare l’articolo di Alice Pari “Femminicidio”
Hai un sito web? Che tu sia un professionista o un appassionato, questo libro fa per te. Ti fornirà strumenti conoscitivi che ti permetteranno di costruire un sito efficace nel trasmettere ogni tipo di messaggio che tu desideri veicolare. Ti spiegherò come raggiungere l’inconscio dei tuoi utenti target e come suggerire, o suscitare, uno stato emotivo predisponente alla penetrazione della tua comunicazione. Tali strumenti trovano la loro applicazione elettiva nel campo della pubblicizzazione e della vendita online, e dunque dell’e-commerce, ma possono essere altrettanto opportunamente impiegati per qualunque altro tipo di sito in cui tu voglia cimentarti: commerciale, aziendale, professionale, di pubbliche relazioni, culturale, scolastico, sociale, no profit, personale, blog.
Nella categoria Colori e forme per il web design troverai spunti e suggerimenti per aumentare l’efficacia inconscia del tuo sito. Buona lettura!